IL CHIEF HAPPINESS OFFICER: CHI E’, COSA FA, PERCHE’ E’ IMPORTANTE

Dal Welfare al Wellbeing: sembra essere questa la nuova sfida dei Direttori del Personale.
Diverse aziende statunitensi, in testa Google, hanno già previsto nel loro organigramma la figura che dovrebbe occuparsi di garantire la felicità sul posto di lavoro: il Chief Happiness Officer.

E in Italia? In Italia sta arrivando ora questa figura.

Vi racconto la mia esperienza

Recentemente ho incontrato presso un nuovo cliente, il primo Chief Happiness Officer della mia carriera.  Sono restata affascinata da questa definizione e, con i miei 25 anni di consulenza aziendale, ho voluto comunque saperne di più in prima persona; così ho chiesto di raccontarmi qualcosa del suo ruolo.
Quanto mi ha spiegato è stato davvero interessante!

Partiamo da un sondaggio effettuato presso alcuni grandi aziende di tutto il mondo, dove l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara che la depressione oggi rappresenta la seconda malattia al mondo.

I dati sono esplicativi, e non poco traumatici:

  • l’87% dei lavoratori nel mondo sono demotivati;
  • il 26% dei dipendenti ha l’ansia di rientrare il lunedì;
  • soltanto il 20% si sente adeguato al lavoro;
  • il 66% dei millennials è convinto di aver scelto la carriera sbagliata;
  • il 91% dei manager sembra essere consapevole di manifestare un’incoerenza di fondo tra i principi del “trattare bene i collaboratori” e i loro comportamenti effettivamente messi in atto;
  • il 75% dei collaboratori attribuisce a queste “bad practices” dei manager la causa di ambienti infelici.

È in questo scenario di crisi globale che si fa largo la figura del Chief Happiness Officer: job position appena approdata nelle nostre imprese ma che, secondo me, sarà anche da noi un valido supporto per alcune organizzazioni.

Vediamo un po’ più da vicino cosa il CHO, il cosiddetto ” manager della felicità“, dovrebbe fare in azienda, così come mi è stato spiegato:

  • valutare il livello di benessere dei lavoratori in un’organizzazione;
  • studiare strategie, misure ed azioni per migliorare l’ambiente di lavoro, al punto tale da renderli felici sul posto di lavoro;
  • occuparsi, anche se non in modo esclusivo, di sviluppo organizzativo ed accompagnare la crescita positiva di persone e team per la realizzazione del potenziale e del benessere. 

Può sembrare bizzarro parlare di felicità all’interno di un’azienda, fino a toccare la linea di produzione. In realtà occuparsi della felicità degli employees significa apportare sensibili miglioramenti al bilancio aziendale e non solo, ovvero:

  1. Abbassare i costi ed incrementare l’efficienza nel breve periodo.
    Secondo fonti autorevoli (vedi Forbes e l’Harvard Business Review), il costo di un dipendente infelice è stimato circa 16k euroall’anno tra minore produttività e spese sanitarie.
  2. Ampliare ricavi e profitti ed essere più efficaci nel medio periodo.
    Nelle organizzazioni con la presenza del CHO, le persone si relazionano positivamente, si sentono felici e ottengono risultati individuali e collettivi che superano le aspettative.
  3. Rigenerare fiducia e valori sono elementi non solo a favore dei dipendenti, ma anche dei clienti e degli altri stakeholder, per un futuro eco-sostenibile nel lungo periodo. Le best practices sull’happiness in azienda alimentano una cultura positiva e valori di rispetto, inclusività e coerenza con effetti crescenti sul benessere personale, relazionale e organizzativo.

Qualche perplessità?
La posso comprendere.

Tuttavia se guardiamo indietro, e nemmeno troppo, ci accorgiamo che il welfare manager è oggi una realtà consolidata, anche se fino a dieci anni fa era praticamente inesistente nell’organigramma di una Direzione Risorse Umane delle nostre aziende.

Partendo da esempi pioneristici di grandi aziende come LUXOTTICA, FERRERO, CUCINELLI, quasi tutti, oggi, hanno il welfare manager e un piano di welfare aziendale.  E alcune realtà già strizzano l’occhio al concetto di welfare a km 0 per supportare in modo massivo l’economia locale.

LE COMPETENZE PRINCIPALI DEL CHO

In Italia è l’Istituto ILPO (Italian Institute for Positive Organizations) che fa da precursore al diffondersi della cultura dell’Happiness Management, con il rilascio di una certificazione del Chief Happiness Officer, focalizzata su 8 competenze chiave.
Vediamole insieme:

  1. Strategic thinking & positive future planning: la capacità di comprendere il nesso tra i principali trend economici, politici, tecnologici, ambientali e socio-culturali e le politiche di gestione e sviluppo delle persone e dell’organizzazione positiva;
  2. Organization epigenetics: la capacità d’intercettare i principali modelli culturali dell’organizzazione e scegliere quali incentivare e quali disattivare coerentemente;
  3. Evolutionary cultural change: la capacità di costruire una cultura eco-sistemica e di implementare modelli di comportamento congruenti;
  4. Self Science: la capacità di coltivare il proprio sé e la propria felicità, allineando propositi, valori, bisogni, e di definire un piano di azione orientato al benessere per poter ispirare ed essere un esempio coerente;
  5. Positive leadership development: la capacità di definire, promuovere ed implementare un piano di sviluppo della leadership positiva diffusa a tutti i livelli dell’organizzazione;
  6. Positive practices strategies: la capacità di selezionare e implementare le pratiche e gli strumenti per generare benessere e positività verso collaboratori, clienti, fornitori, investitori e stakeholders;
  7. Positive organizational management: la capacità di analizzare, ridefinire, misurare e monitorare i principali processi di gestione delle persone definiti dalla happiness at work;
  8. Happiness at work strategy: la capacità di definire un piano strategico per portare nelle pieghe dell’organizzazione la scienza della felicità, influenzando così cultura e processi organizzativi, in grado di produrre risultati misurabili e positivi sul bottom line.

È chiaro che per ricoprire tale incarico in un’azienda occorrono solide capacità professionali, sorrette da un’importante esperienza nel settore HR (in particolare, nell’ambito dello Sviluppo Organizzativo), e soprattutto spiccate caratteristiche personali di orientamento al cambiamento ed alla trasformazione culturale delle organizzazioni.
È chiaro anche che il passaggio da una cultura di welfare ad una di wellbeing rappresenterà per molte Direzioni delle Risorse Umane, non solo nel nostro Paese, la vera sfida del futuro.
Ma è altrettanto chiaro che le figure tradizionali degli HR manager diventano dei veri ossimori relazionali che non possiamo più permetterci.

Elt accetta la sfida e si prepara a portare in inglese e a mettere in atto best courses and best practices on happiness per i nuovi CHO.
E voi, accettate la sfida?